Il metodo dei forni Gill per l’estrazione dello zolfo è un perfezionamento del metodo precedente.
II primo esperimento su questo metodo, venne realizzato da Gill nel 1880 in Sicilia.
Questi forni consistono in due o più camere (fino a 6) dette “celle” con forme diverse e dimensioni variabili da 10 a 30 metri cubi realizzate in pietrame o mattoni, erano accoppiate e comunicanti fra loro per la parte superiore.
Le “celle” più piccole contenevano circa 31 t. di minerale, quelle più grandi fino a 42 t. e, per riempire quest’ultime, occorrevano circa 54 vagoni, da queste poi si ottenevano per fusione circa 120 pani di zolfo.
Prendiamo in considerazione il forno più comune a quattro “celle” (quadriglie).
Ogni “cella” aveva cinque aperture, due per il carico e scarico del materiale e tre per il collegamento fra le varie “celle”.
L’apertura o porta di carico e scarico del materiale era posta in basso e veniva detta “morte” mentre un foro circolare posto in alto della cella serviva per completare il carico.
C’erano poi tre aperture una in basso e due in alto utilizzate per il collegamento fra le varie “celle”.
Le aperture per il carico e scarico del materiale venivano chiuse con mattoni mentre le altre con coperchi di ghisa (valvole).
La corretta gestione, per un buon funzionamento, doveva rispettare, specie per il caricamento, regole precise ed indispensabili.
Il caricamento, veniva eseguito in due momenti, il primo attraverso l’apertura della porta d’accesso (morte) nella parte bassa a contatto con il pavimento veniva posto il minerale di grossa pezzatura con creazione di canali, come per i calcaroni (vedi disegno 2).
Successivamente, per ottenere un regolare riempimento veniva utilizzato un imbuto, che infilato nell’apertura alta era realizzato in modo da dirigere il minerale, di pezzatura più piccola, verso le pareti permettendo così un riempimento uniforme e regolare.
Quando un forno viene acceso per la prima volta (dall’alto) lo zolfo dello prima cella va completamente perduto perché interamente utilizzato per la combustione.
Esaminiamo quindi un forno nel suo funzionamento a regime.
La prima cella “motrice” conterrà solo minerale esausto e privo di zolfo.
I fumi e il calore, prodotti dallo zolfo della “motrice” propagandosi attraverso il materiale della seconda “cella” prima lo riscaldano e successivamente ne provocano l’accensione .
Il riscaldamento e l’accensione possono durare dalle 40 alle 50 ore, la fusione da 23 a 28 ore dall’ accensione.
I fumi caldi della seconda “cella”, che diviene a questo punto “motrice”, sono convogliati verso la terza, in un primo momento nella parte alta (in “prima”) e successivamente verso l’apertura inferiore (in “seconda”) attraverso l’apertura e chiusura delle opportune valvole.
Il passaggio, in “seconda” , avviene generalmente quando la cella in fusione, ha prodotto da 10 a 20 pani.
Il succedersi di queste manovre permette sia il recupero del calore ma anche dello zolfo in sospensione nei fumi.
Dalla terza cella, azionando le opportune valvole, i fumi e il calore vengono convogliati attraverso il collettore ( una struttura muraria lunga e con sezione 1 m X 2 m) verso il camino.
Alla estremità del collettore un ventilatore aspirava i fumi e parte delle polveri in essi contenute erano fermate da una leggera pioggia d’acqua.
Lungo tutto il percorso i fumi depositano una polvere cristallina, molto pura, chiamata “fiori di zolfo” o “farsello”.
In sintesi le 4 “celle” si trovavano rispettivamente nelle fasi di:
1) Raffreddamento
2) Motrice (in produzione)
3) Preriscaldamento
4) Scarico/Carico materiale
Il controllo del processo di fusione doveva essere costante ed attento per evitare inconvenienti più o meno gravi sempre possibili.
Una giusta quantità di aria equilibrava la combustione che doveva garantire l’energia termica necessaria per l’intero processo senza rallentarlo e senza penalizzarne la produzione (minor resa o dilatamento dei tempi).
Potevano inoltre accadere inconvenienti gravi come la chiusura dei condotti o “impiccamento”, la parte del forno maggiormente a rischio di “impiccamento”, era l’apertura inferiore di collegamento fra le due celle.
E’ per questo motivo che per permettere l’accesso alla zona interessata, la cella veniva munita di un apposito cunicolo che permetteva eventuali interventi, si veda a tale proposito la figura relativa alla Sezione A del Forno.
Altro inconveniente che gli addetti ricordano era la così detta “canna scoppiata”, succedeva se e quando la massa dello zolfo incandescente raggiungeva la base della cella e dava origine all’accensione dei canali.
Il rendimento dei forni Gill oscillava dal 12% al 25% ed erano pertanto preferiti ai calcaroni.
La temperatura dei gas provenienti dalla cella “motrice”, raggiungeva i 300 C° mentre nella cella stessa si raggiungevano gli 800 C°.
Tenendo conto del basso punto di fusione dello zolfo (circa 120C°) per innescare l’accensione dello zolfo era sufficiente una temperatura di 200C°.
Dalle testimonianze orali degli addetti il tempo di fusione, di una cella, poteva variare da 18 a 29 ore mentre l’intero ciclo di produzione di un forno Gill, a quadriglia, aveva una durata che variava dagli 8 ai 15 giorni, e le quattro celle dello stesso forno potevano produrre da 60 a 160 fusioni in un anno.
Un rendimento del 14% era ritenuto economicamente valido.