Cenni storici

Si pensa che le prime ricerche di zolfo venissero fatte sugli affiora-menti gessosi-solfiferi su cui si scavavano pozzetti di esplorazione poco pro-fondi ma sufficienti a mettere in evidenza lo strato solfifero mineralizzato.
Da questi pozzetti venivano praticate delle rudimentali coltivazioni ed il minerale estratto veniva fuso in apposite “Calcarelle
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La calcarella

Il metodo di estrazione dello zolfo più “arcaico” dal materiale escavato tramite fusione è la così detta “calcarella”, adottata in Sicilia; non era che una specie di fornace circolare del diametro da metri 1,50 a 2, col suolo inclinato.

Questa specie di fossa veniva riempita di minerale con un cumulo conico totalmente scoperto che conteneva da 50 a 70 tonnellate.

Ultimata la carica si dava fuoco verso l’imbrunire al terzo superiore del cono e la calcarella veniva abbandonata a se stessa sino a quando il mattino seguente da un foro aperto sul davanti incominciava a colare lo zolfo.

Verso sera, e qualche volta a notte inoltrata, la fusione era terminata.
Con questo metodo la produzione di anidride solforosa era notevole e i danni all’agricoltura gravissimi, per cui si prescriveva che questi rudimentali impianti fossero installati ad una distanza non inferiore a 3 chilometri dagli abitati.

Si raccoglieva poco più di un terzo dello zolfo contenuto nel minerale e, quando soffiava forte vento che aveva libero gioco nella massa, lo zolfo bruciava completamente e non si otteneva quindi alcun prodotto.

Le Pignatte o Olle

Dopo le “Calcarelle”, per trattare il minerale di zolfo furono usate le olle in terracotta o pignatte, una importante fabbrica di olle era attiva nei sec. XVII – XIX a M. Sasso di Mercato Saraceno.

Il minerale di zolfo frantumato veniva posto in un recipiente di terra refrattaria a diretto contatto col fuoco.
Lo zolfo fondeva e, sotto forma di vapore, passava in un secondo recipiente dove si condensava e colava nelle apposite forme di legno dove si rapprendeva.

Una volta completato il ciclo, venivano estratti i «rosticci» (materiale poroso residuo della fusione del minerale di zolfo) e si tornava a versare dell’altro minerale per ripetere l’operazione.

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Dall’inizio del 1800 si sostituirono le olle di terracotta con quelle di ghisa, anche con questo sistema non si raccoglieva tutto lo zolfo contenuto nel minerale; allo stato di anidride solforosa, esso si espandeva liberamente nell’atmosfera con grave danno per l’agricoltura.

 

A sinistra: Olla in terracotta per la fusione dello zolfo proveniente dalla fabbrica di M. Sasso di Mercato Saraceno
Nome del fabbricante A.B. Antonio Balducci Sec. XVIII- Foto A. Veggiani

Il Calcarone

A partire dal 1850, per il trattamento del minerale di zolfo, fu usato il metodo del “calcarone”, nel 1880, comparvero i “forni GILL”; questi due sistemi furono adottati per un lungo periodo, in pratica fino alla scomparsa dell’industria solfifera italiana.
Il “calcarone” è una derivazione della “calcarella”.
La nascita del “calcarone” si deve ad un fatto delittuoso avvenuto nel 1842 in una miniera presso Favara in Sicilia dove, per vendetta, venne dato fuoco ad una massa di minerale accatastato nei pressi della miniera.
Vi accorsero molte centinaia di uomini che, non disponendo di acqua, credettero opportuno tentare di soffocare il fuoco coprendo il minerale con terra e pietre.
Dopo circa un mese da sotto quella massa cominciò a scorrere zolfo puro di qualità superiore a quella che la miniera aveva sempre dato.
La quantità poi era maggiore di quella che si sarebbe ottenuta trattando quel minerale con la “calcarella”.
In sostanza il segreto del “calcarone” fu quello di coprire la parte sporgente della fossa con terra allo scopo di frenare e rendere meno viva la combustione.
La resa aumentò notevolmente: da un terzo a quasi due terzi; non si correva inoltre il rischio di perdere il prodotto nel caso di avverse condizioni atmosfe-riche, e la produzione di anidride solforosa era più limitata1. Il “calcarone” (vedi Disegno 1) era un gran cumulo di minerale di zolfo posto in luogo riparato dal vento, in una escavazione e struttura di forma circolare su terreno in pendio con fondo inclinato fra i 30 ed i 35 gradi, di dimensioni variabili che andavano da 250 a 3.500 tonnellate, un diametro da 5 a 35 m ed un’altezza fra 1/7 ed 1/5 del diametro stesso.
Quando le dimensioni erano notevoli era indispensabile, sulla base, realizzare dei canali <<C>> tipo fogna (vedi Disegno 2) per la circolazione dell’aria.
Il minerale era ammassato con precise regole, nella parte centrale ed inferiore del cono i pezzi più grossi ed in periferia i più piccoli, il tutto ricoperto con i residui delle precedenti fusioni (rosticci).
Completata la copertura veniva effettuata l’accensione (generalmente di notte) utilizzando legname imbevuto di zolfo.
Il legname era posto sulla sommità del cumulo in zona opposta alla “morte” (era così chiamata la porta d’accesso alla base del calcarone).
La zona di combustione così creata, lentamente si diffondeva verso il basso ed in avanti, il calore si propagava fondendo tutto lo zolfo il quale, separandosi dalla ganga, si raccoglieva in basso e giungeva al muretto di chiusura o “morte” in un periodo che oscillava dagli 8 ai 30 giorni dall’accensione.
La presenza dello zolfo fuso dietro la “morte” veniva rivelata agli operai addetti alla fusione dello zolfo (badatori) dal calore emanato dai mattoni utilizzati per la chiusura.
Con una barramina (ferro cilindrico con punta, lungo 1,5-2 m), veniva forato il tappo di argilla e lo zolfo fuso, per mezzo di canalette di lamiera tipo grondaia, veniva convogliato negli stampi, una volta cassette di legno umide e successivamente i ghisa <<f>> (Disegno 1) dove solidifica in pani da 50 – 60 kg (furmet).
Appena raffreddati i pani (furmet), venivano tolti dagli stampi ed accatastati.
Dalle testimonianze orali degli addetti (badatori) da un “calcarone” di 2.500 tonnellate si ottenevano circa 6.000 pani di zolfo.
Il tempo che intercorreva fra l’accensione del “calcarone” e l’esaurimento della raccolta dello zolfo fuso, variava a seconda delle dimensioni del“calcarone”, della natura del minerale ed anche, seppur in minima parte, dalle condizioni atmosferiche.
Mediamente, secondo gli operai addetti alla fusione dello zolfo (badatori), per un “calcarone” della capacità di:

  •     50-300 metri cubi, intercorrevano da 30 a 35 giorni per uno di
  •     1000-1200 metri cubi, da 50 a 60 giorni e, per uno di
  •     2000-2500 metri cubi, da 80 a 90 giorni.

Dello zolfo contenuto nel minerale solo i 2/3 perveniva alla “morte” in quanto 1/3 serviva ad alimentare la combustione.
Il massimo rendimento che si può ottenere dai “calcaroni” è di circa il 60 65% dello zolfo totale, per un minerale con 25% di zolfo, 70% di calcare e 5% di umidità.
Esaurita la raccolta dello zolfo fuso, il foro veniva chiuso con il solito tappo di argilla, si attendeva che il “calcarone” si raffreddasse per essere svuotato e di nuovo riempito.

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A) Copertura di rosticci
B) Zona di accensione
C) Altezza del cono un settimo ed un quinto del diametro
D) Canali per areazione e passaggio fuso
E) Pendenza del cono 30-35°
F) Stampi
G) Morte

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A) Stampi
B) Morte
C) Canali di areazione e passaggio fuso

I forni GILL

Il metodo dei forni Gill per l’estrazione dello zolfo è un perfezionamento del metodo precedente.

II primo esperimento su questo metodo, venne realizzato da Gill nel 1880 in Sicilia.
Questi forni consistono in due o più camere (fino a 6) dette “celle” con forme diverse e dimensioni variabili da 10 a 30 metri cubi realizzate in pietrame o mattoni, erano accoppiate e comunicanti fra loro per la parte superiore.
Le “celle” più piccole contenevano circa 31 t. di minerale, quelle più grandi fino a 42 t. e, per riempire quest’ultime, occorrevano circa 54 vagoni, da queste poi si ottenevano per fusione circa 120 pani di zolfo.
Prendiamo in considerazione il forno più comune a quattro “celle” (quadriglie).
Ogni “cella” aveva cinque aperture, due per il carico e scarico del materiale e tre per il collegamento fra le varie “celle”.
L’apertura o porta di carico e scarico del materiale era posta in basso e veniva detta “morte” mentre un foro circolare posto in alto della cella serviva per completare il carico.
C’erano poi tre aperture una in basso e due in alto utilizzate per il collegamento fra le varie “celle”.
Le aperture per il carico e scarico del materiale venivano chiuse con mattoni mentre le altre con coperchi di ghisa (valvole).
La corretta gestione, per un buon funzionamento, doveva rispettare, specie per il caricamento, regole precise ed indispensabili.
Il caricamento, veniva eseguito in due momenti, il primo attraverso l’apertura della porta d’accesso (morte) nella parte bassa a contatto con il pavimento veniva posto il minerale di grossa pezzatura con creazione di canali, come per i calcaroni (vedi disegno 2).
Successivamente, per ottenere un regolare riempimento veniva utilizzato un imbuto, che infilato nell’apertura alta era realizzato in modo da dirigere il minerale, di pezzatura più piccola, verso le pareti permettendo così un riempimento uniforme e regolare.
Quando un forno viene acceso per la prima volta (dall’alto) lo zolfo dello prima cella va completamente perduto perché interamente utilizzato per la combustione.
Esaminiamo quindi un forno nel suo funzionamento a regime.
La prima cella “motrice” conterrà solo minerale esausto e privo di zolfo.
I fumi e il calore, prodotti dallo zolfo della “motrice” propagandosi attraverso il materiale della seconda “cella” prima lo riscaldano e successivamente ne provocano l’accensione .
Il riscaldamento e l’accensione possono durare dalle 40 alle 50 ore, la fusione da 23 a 28 ore dall’ accensione.
I fumi caldi della seconda “cella”, che diviene a questo punto “motrice”, sono convogliati verso la terza, in un primo momento nella parte alta (in “prima”) e successivamente verso l’apertura inferiore (in “seconda”) attraverso l’apertura e chiusura delle opportune valvole.
Il passaggio, in “seconda” , avviene generalmente quando la cella in fusione, ha prodotto da 10 a 20 pani.
Il succedersi di queste manovre permette sia il recupero del calore ma anche dello zolfo in sospensione nei fumi.
Dalla terza cella, azionando le opportune valvole, i fumi e il calore vengono convogliati attraverso il collettore ( una struttura muraria lunga e con sezione 1 m X 2 m) verso il camino.
Alla estremità del collettore un ventilatore aspirava i fumi e parte delle polveri in essi contenute erano fermate da una leggera pioggia d’acqua.
Lungo tutto il percorso i fumi depositano una polvere cristallina, molto pura, chiamata “fiori di zolfo” o “farsello”.
In sintesi le 4 “celle” si trovavano rispettivamente nelle fasi di:
1) Raffreddamento
2) Motrice (in produzione)
3) Preriscaldamento
4) Scarico/Carico materiale
Il controllo del processo di fusione doveva essere costante ed attento per evitare inconvenienti più o meno gravi sempre possibili.
Una giusta quantità di aria equilibrava la combustione che doveva garantire l’energia termica necessaria per l’intero processo senza rallentarlo e senza penalizzarne la produzione (minor resa o dilatamento dei tempi).
Potevano inoltre accadere inconvenienti gravi come la chiusura dei condotti o “impiccamento”, la parte del forno maggiormente a rischio di “impiccamento”, era l’apertura inferiore di collegamento fra le due celle.
E’ per questo motivo che per permettere l’accesso alla zona interessata, la cella veniva munita di un apposito cunicolo che permetteva eventuali interventi, si veda a tale proposito la figura relativa alla Sezione A del Forno.
Altro inconveniente che gli addetti ricordano era la così detta “canna scoppiata”, succedeva se e quando la massa dello zolfo incandescente raggiungeva la base della cella e dava origine all’accensione dei canali.
Il rendimento dei forni Gill oscillava dal 12% al 25% ed erano pertanto preferiti ai calcaroni.
La temperatura dei gas provenienti dalla cella “motrice”, raggiungeva i 300 C° mentre nella cella stessa si raggiungevano gli 800 C°.
Tenendo conto del basso punto di fusione dello zolfo (circa 120C°) per innescare l’accensione dello zolfo era sufficiente una temperatura di 200C°.
Dalle testimonianze orali degli addetti il tempo di fusione, di una cella, poteva variare da 18 a 29 ore mentre l’intero ciclo di produzione di un forno Gill, a quadriglia, aveva una durata che variava dagli 8 ai 15 giorni, e le quattro celle dello stesso forno potevano produrre da 60 a 160 fusioni in un anno.
Un rendimento del 14% era ritenuto economicamente valido.

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A) Copertura di rosticci
B) Zona di accensione
C) Altezza del cono un settimo ed un quinto del diametro
D) Canali per areazione e passaggio fuso
E) Pendenza del cono 30-35°
F) Stampi
G) Morte

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A) Stampi
B) Morte
C) Canali di areazione e passaggio fuso