Il villaggio marchigiano di Pontelagoscuro di Ferrara

Alla chiusura delle miniere di zolfo di Cabernardi nel 1952 la Montecatini diede la possibilità ai minatori che non avevano scioperato (circa 250) con le relative famiglie, originarie perlopiù dell’area di Sassoferrato, Pergola e Arcevia, di emigrare, in base a linee concordate, a Pontelagoscuro di Ferrara per lavorare, in condizioni non certo facili, nel petrolchimico Montecatini. Una concessione che comportava il dover abbandonare per sempre i luoghi natii.

Qui la Montecatini eresse un villaggio industriale nel 1954 per ospitare tali minatori con le famiglie. Il villaggio fu ben presto denominato “dei marchigiani” in quanto di fatto rappresentava una piccola exclave marchigiana nel Comune di Ferrara dove echeggiava la parlata dell’entroterra anconetano e dalle case usciva il profumo dei piatti poveri marchigiani.

A Pontelagoscuro è ancora molto viva la memoria del trauma dell’emigrazione, della miniera e dell’amore per le terre d’origine ma oggi anche l’orgoglio di essersi ricostruiti una vita inserendosi positivamente in un contesto estraneo. Grazie alle associazioni locali e soprattutto all’appassionato impegno dell’associazione Cristalli nella Nebbia, Pontelagoscuro rappresenta un ulteriore affascinante polo non ufficiale del Parco.

Molto interessante il brano tratto da Lilith Verdini, Migrazioni fra luoghi e culture. Le miniere di Cabernardi, il Limburgo belga e Pontelagoscuro negli anni ’50, “Storicamente”, 3 (2007), no. 33. DOI: 10.1473/stor348

“Nel caso dell’emigrazione verso Pontelagoscuro, invece, si trattò di un trasferimento di manodopera operata dalla stessa impresa mineraria, la Montecatini, che scelse i potenziali migranti da Cabernardi e che organizzò le modalità dello spostamento. L’azienda, infatti, aveva deciso di realizzare un’industria petrolchimica per la produzione di materie plastiche e prodotti chimici. Questo ingresso nell’economia locale venne salutato con entusiasmo, a Pontelagoscuro, in quanto poteva arginare la grave situazione occupazionale del paese, uscito dalla seconda guerra mondiale pressoché completamente distrutto dai bombardamenti, a causa della sua posizione strategica sul Po. L’economia locale era basata sull’agricoltura, spesso praticata con il sistema del bracciantato; c’era anche qualche attività industriale, che prima del conflitto mondiale aveva mostrato vitalità, ma che si era considerevolmente ridotta, a causa dei danni bellici o della mancanza di materie prime[20]. La Montecatini trovandosi dunque nella necessità di assumere personale, pensò che potesse giovare, anche ai fini di un suo maggiore controllo, sceglierlo da un posto (Cabernardi) in cui era stata benefattrice incondizionata e dove la manodopera, in quel momento, era in forte eccedenza. Così, nei mesi di ottobre e novembre del 1952, vennero trasferiti a Ferrara i primi 8 operai con un certo grado di specializzazione in officina e falegnameria, tutti ex dipendenti della miniera di zolfo. La Montecatini si occupò anche della prima sistemazione degli operai in stanze d’affitto presso alcune famiglie ferraresi, in attesa di costruire, così come aveva promesso, un quartiere operaio a Pontelagoscuro vicino al luogo di lavoro, ancora oggi conosciuto come il villaggio dei marchigiani. Nel mese di dicembre ai primi trasferimenti ne seguirono altri 100 per coinvolgere negli anni successivi circa 250 nuclei famigliari[21]. All’inizio certamente fondamentale fu la capacità di adattamento dei marchigiani, come, d’altra parte, questa qualità è importante in tutte le vicende migratorie. Infatti nell’attesa che venissero costruite le case promesse, gli operai abitarono in semplici stanze.

… A Ferrara l’azienda ci aveva trovato un alloggio e  per l’affitto dava un contributo di 6.000 lire; le case erano dei ferraresi che affittavano delle stanze e con i padroni della casa ci parlavamo, tranquilli…sul letto c’era il gelo, mica c’era il riscaldamento, eravamo due per camera, ma un freddo, una nebbia che non vedevi manco da qui a lì, non eri pratico…[22]

Quando alcuni decisero di far arrivare anche la famiglia, dovettero sistemarsi in spazi molto ristretti, con letto e cucina spesso in un unico vano. Come raccontano le testimonianze, si andava al lavoro in bicicletta e si cercava così di cominciare a conoscere la realtà circostante. Già questo contesto generale presentava differenze rispetto ai luoghi di origine, dove l’affitto non era una situazione usuale, dato che le case erano per lo più di proprietà oppure in dotazione del fondo. Inoltre si aveva sempre un pezzo di terra da coltivare ad orto per avere direttamente a disposizione gli ortaggi, e, oltre al maiale, si allevavano anche animali da cortile. Un passaggio, quindi, da un contesto di campagna ad uno di periferia urbana, dove si stava sviluppando un complesso industriale, che nei momenti di massima produzione darà occupazione a circa 5.000 persone. Le case del “villaggio marchigiano” furono costruite su un campo di barbabietole e pertanto nel momento in cui vennero consegnate, il 1° maggio 1954, le strade erano ancora di terra, quando pioveva diventavano fangose e bisognava fare attenzione a dove si camminava. Con dei camion e del legno per fare gli imballaggi, messi a disposizione dalla Montecatini, si poté fare il trasloco di ciò che si era lasciato nelle proprie abitazioni nelle Marche e così piano piano fu possibile sistemarsi dignitosamente, e anche i disagi iniziali scomparirono.

La concentrazione nello spazio di immigrati della stessa origine, determina la formazione di un gruppo distinto, con forti elementi di coesione, che all’inizio può limitare od ostacolare il processo di integrazione con la realtà circostante, in quanto la comunità può tendere ad un ripiegamento verso l’interno. Da parte della società ospitante, invece, si può provare timore nei confronti di un gruppo numeroso, compatto e all’apparenza indistinto. Nei contesti della migrazione dei marchigiani che si sono esaminati – il Limburgo e il Ferrarese – non fu quindi particolarmente favorito, dal punto di vista della dislocazione spaziale, un mescolamento dei nuovi arrivati con la popolazione locale. Questo aspetto se da un lato può aver agito come fattore ritardante per l’avvicinamento con la nuova realtà, dall’altro ha però contribuito a mettere in relazione queste persone, e a far così rinsaldare quelle reti sociali di aiuto reciproco, tipiche dei rapporti interpersonali della società contadina di provenienza e utili nel nuovo contesto.

Fondamentale, dopo i primi mesi di adattamento, fu la possibilità del ricongiungimento familiare, che accelerò l’accesso ai nuovi alloggi, per i quali c’era sempre grande richiesta. La sistemazione in una casa, che potesse definirsi tale, ha rappresentato la realizzazione di importanti aspettative. Innanzitutto quella di vivere con la propria famiglia, che costituisce automaticamente fonte di equilibrio, di stabilità e di forza per affrontare e superare le inevitabili difficoltà di vita in un nuovo contesto. Diventa anche il segno tangibile di una certa riuscita, per persone che spesso nel paese di provenienza vivevano in un contesto mezzadrile, quindi con spostamenti da un fondo ad un altro, senza la possibilità di avere una casa propria. Il poter dire “ora sono in casa mia” significava che si era riusciti a ritagliarsi un proprio spazio indipendente, in cui sentirsi liberi, per ricominciare. La casa non è dunque solo il luogo dove mangiare e dormire, ma rappresenta la famiglia, la riuscita, l’indipendenza e la tranquillità.

Le figure femminili, in entrambi i contesti di arrivo, hanno giocato un ruolo importante per il sostegno emotivo e concreto, sia nella gestione dell’economia domestica, sia nel contributo alle entrate monetarie della famiglia. Molte donne ad esempio si offrivano per alcuni lavori domestici o di cura, come cucinare, lavare i vestiti e fare del cucito, per chi era ancora solo. In questo modo, le donne hanno sviluppato anche una indipendenza lavorativa, come non avrebbero potuto fare nel contesto di origine, dove i ruoli femminili erano ancora legati esclusivamente alla sfera domestica. Sono le donne che poi si muovono nei nuovi spazi della migrazione: portano i figli a scuola, vanno nei negozi a fare acquisti e riescono così, giorno dopo giorno, a far diminuire la diffidenza nei loro confronti, a far superare quei pregiudizi che esistono sempre verso i nuovi venuti.

… Ci dicevano magnabietul, perché i primi arrivati andavano in campagna, abituati alla verdura, han visto queste bietole, sono andati là con un coltello, e si pensa che i proprietari abbiano reclamato alla Direzione della Montecatini, che poi ha provveduto al pagamento per risarcire il danno di queste bietole tagliate…[23]

Nei racconti di oggi a volte c’è ancora il ricordo di antiche ferite, ma anche l’orgoglio per aver trovato il modo di inserirsi nel nuovo contesto, senza tradire la propria origine e il proprio modo di vivere, imparando ed insegnando ciò che era scambiabile tra le due culture.

… I ferraresi non è stata gente cattiva dai, c’è il bene e c’è il male come dappertutto, come ti ho detto, noi eravamo più indietro di 50 anni, loro più avanti, le cose magari le capivano meglio di noi, onestamente bisogna dirlo, per esempio le donne la sera davanti al bar a prendere un gelato e da noi non le vedevi, era tutto più avanti…[24]

bandiera inglese

When the Cabernardi sulfur mines closed in 1952, Montecatini gave the possibility to the miners who hadn’t gone on strike (about 250) with their families, mostly originating from the Sassoferrato, Pergola and Arcevia areas, to emigrate, on the basis of agreed lines, to Pontelagoscuro di Ferrara to work, in certainly not easy conditions, in the Montecatini petrochemical plant. A concession that entailed having to abandon their native places forever.

Here Montecatini built an industrial village in 1954 to host these workers with their families. The village was soon called “of the marchigiani” as in fact it represented a small Marche exclave in the Municipality of Ferrara where the speech of the Ancona hinterland echoed and the scent of typical Marche dishes came out of the houses.

In Pontelagoscuro the memory of the trauma of emigration, of the sulfur mine and of the love for the lands of origin is still very much alive, but also the pride of having rebuilt a life by positively merging with a different and distant context. Thanks to the local associations and above all to the passionate commitment of the Cristalli nella Nebbia association, Pontelagoscuro represents another fascinating unofficial pole of the Park.

Punti di vista

Alcuni scatti dal sito minerario