Quando alcuni decisero di far arrivare anche la famiglia, dovettero sistemarsi in spazi molto ristretti, con letto e cucina spesso in un unico vano. Come raccontano le testimonianze, si andava al lavoro in bicicletta e si cercava così di cominciare a conoscere la realtà circostante. Già questo contesto generale presentava differenze rispetto ai luoghi di origine, dove l’affitto non era una situazione usuale, dato che le case erano per lo più di proprietà oppure in dotazione del fondo. Inoltre si aveva sempre un pezzo di terra da coltivare ad orto per avere direttamente a disposizione gli ortaggi, e, oltre al maiale, si allevavano anche animali da cortile. Un passaggio, quindi, da un contesto di campagna ad uno di periferia urbana, dove si stava sviluppando un complesso industriale, che nei momenti di massima produzione darà occupazione a circa 5.000 persone. Le case del “villaggio marchigiano” furono costruite su un campo di barbabietole e pertanto nel momento in cui vennero consegnate, il 1° maggio 1954, le strade erano ancora di terra, quando pioveva diventavano fangose e bisognava fare attenzione a dove si camminava. Con dei camion e del legno per fare gli imballaggi, messi a disposizione dalla Montecatini, si poté fare il trasloco di ciò che si era lasciato nelle proprie abitazioni nelle Marche e così piano piano fu possibile sistemarsi dignitosamente, e anche i disagi iniziali scomparirono.
La concentrazione nello spazio di immigrati della stessa origine, determina la formazione di un gruppo distinto, con forti elementi di coesione, che all’inizio può limitare od ostacolare il processo di integrazione con la realtà circostante, in quanto la comunità può tendere ad un ripiegamento verso l’interno. Da parte della società ospitante, invece, si può provare timore nei confronti di un gruppo numeroso, compatto e all’apparenza indistinto. Nei contesti della migrazione dei marchigiani che si sono esaminati – il Limburgo e il Ferrarese – non fu quindi particolarmente favorito, dal punto di vista della dislocazione spaziale, un mescolamento dei nuovi arrivati con la popolazione locale. Questo aspetto se da un lato può aver agito come fattore ritardante per l’avvicinamento con la nuova realtà, dall’altro ha però contribuito a mettere in relazione queste persone, e a far così rinsaldare quelle reti sociali di aiuto reciproco, tipiche dei rapporti interpersonali della società contadina di provenienza e utili nel nuovo contesto.
Fondamentale, dopo i primi mesi di adattamento, fu la possibilità del ricongiungimento familiare, che accelerò l’accesso ai nuovi alloggi, per i quali c’era sempre grande richiesta. La sistemazione in una casa, che potesse definirsi tale, ha rappresentato la realizzazione di importanti aspettative. Innanzitutto quella di vivere con la propria famiglia, che costituisce automaticamente fonte di equilibrio, di stabilità e di forza per affrontare e superare le inevitabili difficoltà di vita in un nuovo contesto. Diventa anche il segno tangibile di una certa riuscita, per persone che spesso nel paese di provenienza vivevano in un contesto mezzadrile, quindi con spostamenti da un fondo ad un altro, senza la possibilità di avere una casa propria. Il poter dire “ora sono in casa mia” significava che si era riusciti a ritagliarsi un proprio spazio indipendente, in cui sentirsi liberi, per ricominciare. La casa non è dunque solo il luogo dove mangiare e dormire, ma rappresenta la famiglia, la riuscita, l’indipendenza e la tranquillità.